Rapporto Ispra: consumo di suolo a doppia faccia

Gregg Easterbrook, giornalista ed editore americano, è famoso soprattutto per un aforisma che viene ricordato tutte le volte che si apre una  discussione attorno a una statistica: «Se torturi i numeri abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa». Niente di più vero: i numeri, se calati nella realtà della vita, non sono neutrali. Dipende da come li si legge. Questo vale anche per dati che periodicamente sono pubblicati da Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale.

Il suo report più recente, reso noto a ottobre, riguarda la quantità di superficie italiana occupata in più da una qualche attività umana rispetto all’anno precedente. Tradotto a favore di telecamera: il consumo di suolo, che nel 2022 è aumentato ulteriormente. Anzi, decisamente a dismisura.

I dati sono senza dubbio interessanti, ma lo è anche una considerazione che solitamente è ignorata: la qualità delle opere che occupano il territorio, visto che nessuno si pone come traguardo di coprire per sport un territorio con strati di cemento, asfalto e laterizio. Se si costruisce molto di più, forse troppo, è necessario anche valutare come e dove si occupa il suolo. E, non da ultimo, con che cosa.

Accezione negativa

Tra l’altro, si può obiettare che la definizione di consumo contiene di per sé una valenza non neutrale. L’Enciclopedia Treccani definisce la voce «consumare» come «distruggere, ridurre al nulla mediante l’uso o l’utilizzazione per determinati fini o bisogni». Eppure, se costruisco un condominio o un asilo non distruggo nulla.

Offro, al contrario, un bene o un servizio, non qualcosa che si scioglie come una caramella. E, probabilmente, visto che l’edificio è nuovo, sarà anche meno energivoro rispetto a una corrispettiva costruzione già esistente che non consuma suolo, ma spreca tanto calore in più.

Non solo: se Milano pianifica un nuovo quartiere, per esempio CityLife, statisticamente si tratta di consumo di suolo, anche se occupa un’area già urbanizzata. Eppure si tratta della prima area al mondo a ottenere il livello Platinum in tre certificazioni di sostenibilità internazionali attribuite da enti certificatori indipendenti: il Leed for Cities and Communities, il Well Community Standard e Sites for Existing Landscape.

Insomma, il consumo di suolo ha due facce, visto che solitamente non si investono soldi in superfici di calcestruzzo per il gusto di eliminare un campo di mais, ma per coprire qualche bisogno. Ovviamente non è che manchino sprechi e cementificazioni eccessivamente speculative, ma tradurre l’occupazione di suolo come dato automaticamente negativo è perlomeno grossolano.

Come nel caso di una strada che smaltisce il traffico: abbasserà anche l’inquinamento dell’area che in precedenza era intasata dalle vetture, con beneficio per l’aria. Il cosiddetto consumo di suolo, quindi, può essere buono o cattivo, ma non necessariamente una sciagura.

I numeri

Premesso questo, veniamo ai dati. Nel 2022 il cosiddetto consumo di suolo ha riguardato 76,8 chilometri quadrati, il 10,2% in più rispetto al 2021. Il conteggio totale indica 21,5 mila chilometri quadrati. Non sorprende che si costruisca di più dove l’attività economica è più intensa, cioè lungo la Pianura Padana, tra Milano e Venezia, e lungo la costa adriatica fino alla Puglia.

Sempre secondo la classifica quantitativa, le regioni in cui percentualmente si edifica maggiormente sono Lombardia (12,16%), Veneto (11,88%) e Campania (10,52%), mentre il maggiore incremento netto nel 2022 è stato registrato in Puglia, Emilia-Romagna e Piemonte. Il primato a livello provinciale, però, spetta ancora alla Lombardia, con il distretto di Monza e Brianza con il 41% di copertura artificiale, seguita da Napoli (35%) e Milano (32%).

Cementificazione

La cementificazione, il bau bau del territorio, spesso a ragione, è un fenomeno più presente nelle città metropolitane di Roma e Napoli. L’area di Roma Capitale ha registrato il consumo di suolo più elevato, curiosamente seguita da Uta (Cagliari) e Casalpusterlengo (Lodi). Questi ultimi due casi meritano una riflessione.

Uta, comune sardo di 10 mila abitanti, entrando nelle classifica di Ispra è sospettato di una dissennata cementificazione. Ma è un classico esempio di come i numeri non siano neutrali: è vero che a Uta l’incremento di consumo di suolo è stato di quasi 58 ettari rispetto al precedente.

Ma, attenzione: si tratta dell’ampliamento di una superficie destinata all’installazione di pannelli fotovoltaici a terra su aree precedentemente agricole. Insomma, il consumo di suolo è, in realtà, parte della tanto auspicata rivoluzione green, che punta a utilizzare l’energia solare al posto dei combustibili fossili. Ogni parco fotovoltaico è consumo di suolo, eppure fa bene all’ambiente.

Da notare che i nuovi impianti fotovoltaici a terra hanno comportato un consumo di suolo, misurato, secondo i criteri definiti dalla Ue, di una superficie di poco inferiore al 50% sul totale delle installazioni. Per questo è sbagliato puntare sui pannelli solari? I titoli che generano traffico sul web, i cosiddetti clickbait, non lo specificano. Anzi, paradossalmente indignano proprio chi è più sensibile alle ragioni della sostenibilità.

Parchi-fotovoltaici
Parco fotovoltaico

Logistica

Del tutto diverso il caso dell’area di Casalpusterlengo, nel Lodigiano, dove l’occupazione di aree agricole è stata spinta invece da attività legate alla logistica. Che però sono la diretta conseguenza del boom degli acquisti online, attività spesso utilizzata anche dai più irriducibili ambientalisti, nonché da chi sostiene la necessità per le imprese della distribuzione di utilizzare lo strumento dell’e-commerce.

Anche in questo caso, quindi, aleggia un profumo di contraddizione. In poche parole: indignarsi per il consumo di suolo è facile, ma l’informazione a riguardo spesso è univoca, anzi, una sòla, con l’accento sulla o, per dirla alla romana.

Interpretazione

L’interpretazione errata dei numeri, naturalmente, non deve nascondere la realtà: l’occupazione di suolo adibito all’agricoltura da parte di edifici, piazzali e parcheggi è spesso superflua. Secondo Ispra, la costruzione di nuovi edifici nel 2022 ha comportato la perdita di circa un migliaio di ettari di suoli agricoli.

La domanda successiva è: questi edifici resteranno vuoti, oppure serviranno a ospitare qualcuno? Difficile, da un dato generale, fornire una risposta. Di certo l’urbanizzazione a prescindere genera mostri, come segnalano le alluvioni che hanno colpito l’Emilia-Romagna e, più di recente, la Toscana.

Proprio secondo il rapporto Ispra, la Toscana non è tra le peggiori regioni per consumo di suolo. Ma l’area di Campi Bisenzio, quella colpita dall’alluvione, con +8,86 ettari di suolo occupato nel 2022 è al terzo posto dopo Cavriglia (+12,67) e Pisa (+10,10) tra le zone in cui si è più costruito. Il sospetto è che, in questo caso, sia stato edificato troppo dove non si sarebbe dovuto, anche se nel caso specifico l’allagamento è stato semplicemente causato dalla rottura di un argine.

Il boom

Episodi come questo sono, probabilmente, anche alla base dell’allarme lanciato dal Rapporto Ispra: «Gli ultimi dati ci mostrano che, purtroppo, il consumo di suolo, con le conseguenze analizzate approfonditamente in questo rapporto, non solo da due anni non rallenta più, ma nel 2022 accelera bruscamente e torna a correre a ritmi che, in Italia, non si vedevano da più di dieci anni.

I fenomeni di trasformazione del territorio agricolo e naturale in aree artificiali hanno così sfiorato i 2,5 metri quadrati al secondo e riguardato quasi 77 chilometri quadrati in un solo anno, il 10% in più rispetto al 2021.

Si tratta certamente di un ritmo non sostenibile, che dipende anche dall’assenza di interventi normativi efficaci in buona parte del Paese o dell’attesa della loro attuazione e della definizione di un quadro di indirizzo omogeneo a livello nazionale», è l’analisi del presidente dell’Istituto, Stefano Laporta.

Visto che l’Unione Europea si pone tra gli obiettivi quello di azzerare il consumo di suolo, certamente il dato italiano stride. Inoltre, va considerato che, a prescindere dalla qualità del costruito, il trend attuale non è statisticamente sostenibile. Secondo il calcolo dei tecnici Ispra, con il ritmo di occupazione del suolo registrata nel periodo 2006-2012, entro il 2050 si sfiorerebbero i 3 mila chilometri quadrati di suolo consumati in più, all’incirca l’area occupata dalla provincia di Bergamo, montagne comprese.

La soluzione

Qual è la soluzione? La prima indicata dai tecnici dell’Istituto riguarda, non sorprendentemente, la rigenerazione urbana. Riqualificare dove possibile, ricostruire dove necessario e riutilizzare edifici dismessi, come nel caso di capannoni e impianti in disuso, è la chiave per evitare un ulteriore apporto di asfalto e cemento. Senza sottovalutare il ripristino a verde di aree dismesse.

Non è un obiettivo lunare: nonostante l’accelerazione di consumo di suolo, nel 2022 la riconversione da costruito a verde ha interessato 44 aree naturali, pari a 6 chilometri quadrati, passati da suolo consumato a non consumato, in genere grazie al recupero di aree di cantiere o di superfici che erano state già classificate come consumo di suolo reversibile.

È ancora poco, ma testimonia come costruire non sia sempre una sciagura e, soprattutto, non per sempre. E se negli ultimi due anni è stata registrata un’accelerazione, non bisogna dimenticare che nell’ultimo decennio non è sempre stato così. Tra il 2012 e il 2015, per esempio, il decremento è stato del 46,5%. Segno che l’urbanizzazione del territorio segue prima di tutto il ciclo economico. Sta alla politica coniugare lo sviluppo con il rispetto del territorio.

di Giuseppe Rossi

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