Dissesto idrogeologico in Italia: perché drenare è meglio di ricostruire

A metterli in fila, gli eventi alluvionali degli ultimi vent’anni in Italia raccontano non solo una lunga scia di devastazione paesaggistica e di danni materiali, ma anche un numero elevato di vittime che potevano essere evitate. Oltre 300 morti, comprendendo anche i dispersi, e un numero imprecisato di sfollati, ma che superano almeno le 600 mila persone. La lista è molto lunga e, a partire dall’alluvione di Soverato del 2000 a oggi, comprende 43 eventi, in pratica una media di poco più di due eventi ogni anno, uno ogni sei mesi, una frequenza troppo frequente per relegarla a calamità e, soprattutto, a fatalità.

Il nostro è un territorio fragile e lo è da Nord a Sud. Non c’è una sola regione che non abbia avuto nella storia eventi alluvionali disastrosi, ma certamente alcune regioni più di altre esprimono una debolezza idrogeologica che necessiterebbe di grandi interventi di riassetto del territorio, di riequilibrio del rapporto tra territorio urbanizzato e paesaggio naturale, soprattutto in rapporto alla perdita di qualità di quest’ultimo, data in molti casi dall’abbandono di terre un tempo governate dall’uomo, in particolare quelle di montagna.

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Ponte Vecchio a Firenze il 17 novembre 2019. Il livello dell’acqua del fiume Arno nel centro storico sta per raggiungere il livello critico

 

Con la fine dell’agricoltura di montagna, il progressivo avanzamento di boschi non assestati e l’espansione delle aree urbanizzate anche in territori idrogeologicamente non adatti, il rischio oggi, di fronte al cambiamento climatico, è non solo evidente, ma ci viene ricordato a ogni calamità.

Solo nel 2019 ricordiamo gli eventi alluvionali di Matera, di Genova, Savona, in provincia di Alessandria e quello che, per motivi ovvi, ha fatto il giro del mondo, ovvero l’eccezionale susseguirsi di fenomeni ribattezzati «acqua granda» a Venezia, quando tra novembre e dicembre la laguna ha messo in ginocchio la città e mostrato tutta la fragilità non solo della Serenissima, ma anche dell’Italia intera.

Perché Venezia è un esempio di come trattiamo il nostro territorio. Abbiamo un paesaggio tra i più unici al mondo e non lo curiamo, lo lasciamo esposto al tempo e alle intemperie, senza considerare che utilizzare sistemi di mitigazione e interventi di riduzione dei rischi garantirebbero una sicurezza che si tradurrebbe anche in una maggiore attrattività stessa del territorio, non solo per i turisti, ma anche per i residenti e le imprese.

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Città colpita da una frana e da un alluvione

 

Senza sicurezza, come la pandemia ci ha insegnato, l’orizzonte di sviluppo, il nostro futuro, è minato alla fonte. Sull’incertezza non si possono costruire solide fondamenta per la crescita socioeconomica e territoriale. E, dunque, il rischio è trovarci ad attendere la prossima alluvione senza aver minimamente messo a mano alle necessità urgenti da affrontare. Che sono tante, ma che riguardano soprattutto tante persone, oltre 6 milioni, che in Italia risiedono in territori a rischio alluvioni (ai quali dovremmo aggiungere circa 1 milione di abitanti in pericolo per le frane).

Secondo dati Ispra, il 91% dei comuni italiani si trova in territori con problemi idrogeologici. Inoltre, il cambiamento climatico ha un effetto diretto sulle alluvioni, vista la tendenza alla tropicalizzazione, che si evidenzia con una più elevata frequenza di eventi violenti, con grandine di sempre maggiori dimensioni, sfasamenti stagionali e rapido susseguirsi di precipitazioni brevi ed intense, con danni che sono stati quantificati in 14 miliardi di euro solo nell’ultimo decennio, tra perdite della produzione agricola, danni alle strutture e alle infrastrutture, oltre alle vittime.

La sola estate del 2019 ha fatto segnare 760 tra grandinate, trombe d’aria e bombe d’acqua, esattamente il doppio (+101%) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, secondo i dati Eswd, ovvero la banca dati europea sugli eventi estremi.

Che fare? Certamente bisogna intervenire con un piano ordinario nella straordinarietà, cioè avviare un piano strutturato di interventi che non siano però solo interventi tampone, per sistemare i danni ex post, ma che inizino ad agire secondo una politica ex ante. Prevedere cosa potrebbe accadere e, in basi ai tanti modelli climatici e idrogeologici, studiare le soluzioni migliori per ridurre i potenziali danni e minimizzare gli impatti. Opere necessarie che vanno dalla sistemazione e pulizia degli argini dei fiumi, ai progetti di ingegneria naturalistica fino a un vero e proprio piano infrastrutturale per la creazione di invasi, che raccolgano l’acqua piovana e che siano ad esempio in grado di redistribuirla quando ce n’è poca attraverso i consorzi di bonifica.

Secondo stime di Anbi, l’Associazione nazionale dei consorzi per la gestione e tutela del territorio e acque irrigue, il costo del dissesto idrogeologico è di 2,5 miliardi di euro all’anno. La popolazione a rischio alluvioni è di oltre 9 milioni di abitanti (di cui quasi 6 milioni a pericolosità media ed elevata), le imprese a rischio sono 879 mila (di cui 576 mila a pericolosità media ed elevata), i beni culturali a rischio sono 40.454 (di cui 29.005 a pericolosità media ed elevata), le superfici artificiali a rischio si estendono su 292.690 ettari (di cui 201.130 a pericolosità media ed elevata).

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Torino, 2016: soccorsi dopo l’alluvione che ha colpito la città

 

Un esempio positivo, da seguire, potrebbe essere quello del Piemonte. Infatti a oltre 25 anni dalle tragiche alluvioni del 1994 i consorzi di bonifica, operando di concerto con le autorità preposte, sono intervenuti con opere che hanno messo in sicurezza la rete idraulica piemontese che dimostra nel tempo di riuscire a reggere. Non si tratta tuttavia solo di opere idrauliche, ma anche di manutenzioni degli alvei, evitando la presenza di materiali che ostacolerebbero il defluire delle acque, e l’utilizzazione di sistemi di drenaggio più efficienti.

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Esondazione del fiume Po a Torino il 25 novembre 2016

 

Ovviamente, siamo tutti consapevoli che il rischio idrogeologico zero non esiste, soprattutto a fronte dei cambiamenti climatici, la cui velocità è più forte della capacità di adeguamento finora espressa dal nostro sistema Paese. In Italia dobbiamo recuperare 25 anni di ritardi e mancati interventi, e un generale disinteresse nei confronti della salvaguardia del territorio.

Uno dei problemi più gravi è quello dell’impermeabilizzazione del terreno, che porta al degrado del suolo in quanto comporta un rischio accresciuto di inondazioni, contribuisce ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità, contribuisce alla progressiva e sistematica distruzione del paesaggio, soprattutto rurale. Dunque, tutte le tecnologie in grado di garantire un maggior drenaggio e di rendere permeabili le superfici oggi impermeabili sono interventi che andrebbero proprio nella direzione di un miglior deflusso delle acque, garantendo la salvaguardia non solo del territorio ma soprattutto delle persone e di tutto il patrimonio costruito.

Che ci sia una maggiore attenzione nel mercato a questi temi, peraltro, è indubbio. Prova ne sono i risultati economici delle imprese che operano in questo campo, sia i produttori di sistemi e materiali, sia i rivenditori, come evidenziano i risultati delle analisi di bilancio che ogni anno il Centro Studi YouTrade elabora. Ma non è ancora abbastanza e dobbiamo fare molto di più, perché il drenaggio non può essere un miraggio. Abbiamo competenze, abbiamo soluzioni tecnologiche ed esperienze positive. Mettiamole in rete e cerchiamo di comprendere che spendere oggi in prevenzione significa risparmiare domani, soprattutto in termini di vite umane.

 

di Federico Della Puppa (da YouBuild n.18)

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