Venezia affonda millimetro dopo millimetro. All’Arsenale, la Biennale di Architettura mostra come non affondare con lei. Ma questa non è una mostra consolatoria, è una diagnosi climatica non richiesta, servita attraverso aria a 50 gradi sparata in faccia ai visitatori, caffè fatto con acqua di laguna, serre spaziali che insegnano a sopravvivere sulla Terra.
Non si raccolgono souvenir ma interrogativi su come costruiamo, come sopravviviamo mentre il pianeta si scalda e come potremmo imparare a farlo anche oltre la sua atmosfera. Il curatore Carlo Ratti ha scelto un titolo semplice e denso: Intelligens. Natural. Artificial. Collective.
Non uno slogan, ma un programma. Dentro la radice latina gens c’è la comunità, le persone: ricordandoci che l’architettura riguarda la società prima ancora dei muri che la proteggono. Il messaggio è di orchestrare tre forme di intelligenza, e solo nella loro interazione cambiare davvero le regole del gioco.
La Biennale di questo anno non vuole essere un giro all’Ikea, fatto di bello, prossima stanza. Propone invece un laboratorio condiviso, dove le idee si trasformano in esperimenti concreti, osservabili, testabili e, se funzionano, replicabili.

Meno romanticismo e più organizzazione sistemica dei dati. L’architettura qui non è una collezione di oggetti statici e disegni, ma una grammatica per abitare un mondo in crisi climatica. La mitigazione da sola non basta più, ma serve capacità di adattamento.
Venezia ci accoglie con la sua bellezza retrò. Calli strette, magnifici palazzi che si specchiano sull’acqua, odore di legno umido e salsedine. Ma dietro l’incanto vibra un avvertimento: ci sono da secoli, ma non garantisco per i prossimi decenni. La città è un organismo fragile, simbolo perfetto di un equilibrio climatico che s’incrina.
Termini e condizioni del nostro comfort
All’interno dell’Arsenale, l’installazione iniziale Terms and Conditions sposta il tema della crisi climatica dal piano intellettuale a quello corporeo. I condizionatori, solitamente nascosti all’esterno, qui vengono appesi in sala e accesi: scaricano aria bollente a 40–50 °C direttamente sul pubblico.
Una provocazione tanto semplice quanto brutale sul funzionamento del condizionatore che non annulla il calore, lo trasferisce. Il risultato è un microclima insostenibile: mentre le altre sale collegate al lato freddo restano fresche e silenziose, questo spazio dei visitatori si surriscalda in pochi minuti.

L’installazione materializza la disuguaglianza energetica dove ogni grado di comfort produce disagio altrove.
Questa esperienza riproduce, in scala ridotta, ciò che accade quotidianamente nelle metropoli: milioni di unità che raffrescano uffici e appartamenti riversano calore sulle strade, alimentando le isole di calore urbano. Il paradosso è che più ci raffreschiamo, più aumentiamo la temperatura esterna, creando un circolo vizioso che richiede ancora più raffrescamento.
La tecnologia rivela il suo volto politico perché chi può permettersi il fresco esternalizza i costi su ecosistemi e comunità più vulnerabili.
E l’arte dell’installazione sta nel rendere tangibile ciò che solitamente resta nei grafici: stress termico, pompe di calore, debito energetico. Concetti che si trasformano in sudore, respiro corto, fastidio fisico. È un messaggio chiaro: il comfort non è gratis, e qualcuno paga sempre.

Piante come tecnologia, non come decoro
A pochi passi, la Fabbrica dell’Aria di Stefano Mancuso e Pnat ribalta l’idea che il verde sia un ornamento estetico.
Qui le piante diventano infrastruttura con un’intelligenza metabolica testata da miliardi di anni. Il sistema funziona come un vero polmone artificiale che imita e amplifica i processi naturali.
L’aria interna viene aspirata e convogliata in biofiltri vegetali composti da substrati porosi (argilla espansa, zeoliti, carbone attivo) colonizzati da radici e microrganismi.
È lì che avviene la trasformazione: i Voc e le polveri sottili vengono metabolizzati da batteri ed enzimi, mentre le foglie catturano polveri e assorbono Co₂, restituendo ossigeno e umidità.
Non è semplice filtrazione, ma degradazione biologica in cui l’inquinante viene assorbito, trasformandosi in biomassa vegetale. Sensori collegati al sistema monitorano in tempo reale temperatura, umidità, concentrazione di Co₂ e qualità dell’aria.
Schermi interattivi mostrano la differenza tra aria in entrata e aria in uscita con una riduzione degli inquinanti fino al 98% in un processo continuo sostenuto dalla fotosintesi, senza necessità di sostituzione di filtri né sprechi energetici.
La Fabbrica dell’Aria rappresenta un prototipo di soluzione biofilica concepita per la cosiddetta Indoor Generation, termine che descrive chi trascorre circa il 90% del proprio tempo in ambienti chiusi: la maggior parte della popolazione urbana contemporanea.
E questo modello può essere implementato in scuole, uffici e centri commerciali, con l’obiettivo di trasformare l’aria interna da problema a risorsa.
Non si tratta più semplicemente di utilizzare piante ornamentali, bensì di realizzare sistemi di filtrazione botanica dedicati alla rigenerazione dell’ambiente indoor.

Il cambiamento climatico del sottosuolo
Il fronte caldo non si limita alle temperature percepite in superficie, ma interessa anche gli strati sotterranei. Il sottosuolo ospita numerose infrastrutture come tubature, fognature, gallerie, linee della metropolitana e fondazioni sovrapposte.
Questi elementi rilasciano calore continuamente, contribuendo a un graduale riscaldamento del terreno, fenomeno noto come Underground Climate Change. Tale riscaldamento può causare la dilatazione del suolo, cedimenti nelle fondazioni e inclinazioni degli edifici.
Questo processo è stato osservato in città quali Venezia, Boston, Chicago e Losanna. L’installazione lo rende visibile con un cubo di terra costruito con materiali locali, attraversato da tubi e condotti.
Sensori wireless mappano il calore nascosto e i dati raccolti consentono l’acquisizione di conoscenze utili allo sviluppo di strategie operative, che possono portare a soluzioni adeguate.

Imperi che calcolano tra potere e algoritmi
Pochi passi più in là, il visitatore non si limita a osservare ma interagisce fisicamente con un atlante ipertestuale. Calculating Empires: A Genealogy of Technology and Power, 1500–2025, realizzato da Kate Crawford e Vladan Joler, è una struttura ipertestuale che consente un’esperienza immersiva.
L’opera presenta ventiquattro metri di diagrammi alti tre, ricchi di icone, illustrazioni e annotazioni, distribuiti secondo un criterio cronologico.
Una parete è dedicata all’evoluzione della comunicazione e computazione, mentre l’altra segue il tema del controllo e classificazione.

Analizzando il percorso dal colonialismo alle reti digitali, dalla stampa a caratteri mobili ai cavi sottomarini, il progetto offre una sintesi di cinque secoli di tecnologie sviluppate per l’affermazione del potere.
Lo spettatore non osserva la mappa dall’esterno ma vi si trova dentro, implicato nella stessa genealogia che descrive.
L’installazione, situata nell’ex motore navale di Venezia, sottolinea come le dinamiche imperiali non siano scomparse, bensì abbiano assunto nuove forme e linguaggi: le navi sono diventate server, gli arsenali data center, e le vie di conquista percorrono oggi fibre ottiche e dati digitali.
Premiato con il Leone d’Argento, il lavoro si configura sia come archivio sia come spunto di riflessione: l’IA emancipa o riproduce vecchie gerarchie di potere con nuovi linguaggi?
Material bank, circolarità e politica dei materiali
Material Bank – Matters Make Sense è un progetto del Politecnico di Milano a cura di Stefano Capolongo e Ingrid Maria Paoletti, realizzato con la collaborazione di Margherita Palli e del premio Nobel Konstantin Novosëlov.
Il progetto offre ai visitatori l’opportunità di esplorare una biblioteca tattile che include legni, fibre, polimeri, ceramiche e metalli. Non si guarda soltanto ma si può toccare, in un labirinto che educa attraverso il contatto diretto.

Ogni materiale porta con sé una filiera: miniere, trasporti, emissioni, condizioni dei lavoratori con implicazioni sociali e ambientali. In architettura, la dimensione politica si esprime attraverso appalti e carbonio incorporato nei materiali, rendendo la scelta di componenti come mattoni o tavole di legno sia una decisione tecnica sia etica.
Accanto, il progetto Conq: Marine Biobased Building Materials offre un esempio concreto di circolarità: gusci di ostriche e biopolimeri di alga vengono trasformati in bioceramica prodotta a freddo.
Rifiuti che normalmente finiscono nei mari o nelle discariche (milioni di tonnellate ogni anno) sono convertiti in un materiale utilizzabile, resistente ed esteticamente valido.
L’obiettivo è produrre elementi di rivestimento e componenti modulari per il settore edilizio. La circolarità viene realizzata tramite ricerca, nuove ottimizzazioni di processo e lavoro continuo.
Architettura orbitale: imparare dallo spazio per abitare la terra
La sezione dedicata allo spazio invita a cambiare prospettiva. Da temi terrestri come Venezia che affonda o il caldo urbano, si passa a immaginare una vita in orbita, dove tutto va ripensato.
Progettare per lo spazio significa capire cosa è essenziale sulla Terra. Space Garden, sviluppato da Heatherwick Studio e Aurelia Institute, è un laboratorio progettato per studiare la resilienza.
Si tratta di una serra orbitante dotata di 31 camere di crescita che integra aspetti ingegneristici e psicologici: il verde viene considerato sia come fonte di ossigeno e cibo, sia per il suo potenziale effetto sul benessere emotivo.

Le piante svolgono un ruolo importante per gli astronauti sia nei processi di fotosintesi che nel supporto della salute mentale.
Il progetto si presenta come un ecosistema artificiale chiuso, una macchina vivente che ricicla aria, acqua ed energia. Ogni modulo (un metro cubo circa) ospita un microclima differente: tropicale, temperato, arido.
Le piante crescono in sistemi idroponici e aeroponici, monitorate da sensori e telecamere che ne seguono la salute in tempo reale.
Dal punto di vista tecnico, il Space Garden è un bioreattore ambientale. L’aria calda e umida prodotta dalle piante viene condensata: il vapore si trasforma in acqua che viene raccolta e riutilizzata per irrigare le colture.
Filtri Hepa e a carbone attivo eliminano polveri e sostanze nocive, mentre una membrana selettiva separa ossigeno e regola la Co₂ per ottimizzare la fotosintesi.
Tutto avviene in un ciclo continuo, regolato da sensori e software che bilanciano temperatura, umidità e luce. Il prototipo dimostra che l’aria può diventare acqua, e l’acqua vita, in un sistema circolare che non consuma ma rigenera.
È pensato per missioni spaziali, ma la sua vera forza sta nell’essere un prototipo terrestre: un modello per edifici e serre che restituiscano risorse invece di consumarle.
Per vivere meglio qui, dobbiamo immaginare come sopravvivere altrove. Nello spazio il verde è sistema vitale, non ornamento. Sulla Terra continuiamo a invertire le priorità.

Altri prototipi spaziali
Tra i progetti più visionari, Fog-X sembra uscito da un fumetto o dal film Dune: una vela indossabile capace di catturare fino a dieci litri d’acqua dalla nebbia. Non è fantascienza.
È tecnologia operativa, pronta per essere replicata. È un prototipo che insegna a trasformare l’inconsistente in una risorsa.
Non solo le aree aride del pianeta, ma anche regioni come la Sicilia, dove la siccità è ormai cronica, potrebbero beneficiarne. Il progetto permette di camminare e raccogliere acqua guidati da un’app che segnala i punti di maggiore densità di nebbia.

Altro esempio: Design as an Astronaut è un habitat lunare gonfiabile progettato da Valentina Sumini con il supporto del Mit Space Exploration Initiative e dell’Esa.
La struttura consiste in una cupola bianca realizzata con materiali locali, pensata per funzionare con cicli chiusi e risorse limitate. Ogni elemento della costruzione è funzionale e reversibile.
Il progetto mette in evidenza come, in ambiente spaziale, tutti i materiali e le risorse debbano essere reintegrati nel ciclo senza sprechi o rifiuti lasciati fuori dal sistema.
Passeggiando in questa sezione dell’Arsenale si osserva che l’esplorazione spaziale pone l’accento sulla sostenibilità non per la preparazione a vivere in colonie su Marte, ma per la necessità di ridefinire le priorità.
Elementi come aria respirabile, acqua potabile e salute mentale diventano fondamentali nell’ambiente spaziale. L’allontanamento dalla Terra evidenzia l’importanza delle risorse di base spesso date per scontate.
Di conseguenza, emerge una riflessione: la capacità di progettare habitat resilienti sulla Luna suggerisce la possibilità di affrontare problemi come inondazioni nelle città della Romagna o carenze d’acqua a Palermo.
Lo spazio può così essere interpretato come un’opportunità di osservazione critica delle condizioni terrestri. Ad esempio, lo studio di Marte può fornire spunti utili per analizzare sfide urbane a Milano, mentre soluzioni ideate per l’ambiente orbitale possono contribuire alla salvaguardia di Venezia.

Canal cafè serve un espresso alla Laguna
Il Canal Café non è una pausa dal percorso espositivo, ma parte integrante della dimostrazione. Firmato da Diller Scofidio + Renfro con Carlo Ratti Associati e una rete di partner tecnici, serve un caffè preparato non con acqua di fonte o filtrata dal rubinetto, ma con quella della laguna veneziana.
L’idea è rendere potabile l’acqua della laguna. Il processo è al tempo stesso bar e dimostrazione scientifica. L’acqua dei canali viene trattata attraverso un sistema che combina tecnologia artificiale e naturale.
Il percorso inizia con un sistema di biofiltrazione ecologica, una sorta di living machine che trattiene fanghi e composti organici, sfruttando radici di piante alofile e comunità batteriche capaci di metabolizzare nutrienti e tossine.

Da qui l’acqua si divide in due flussi: uno attraversa una microzona umida che migliora la qualità biologica trattenendo i minerali in eccesso, l’altro passa attraverso una sequenza di filtri tecnologici (carbone attivo, osmosi inversa e sterilizzazione Uv) che rimuovono sali, microinquinanti e microrganismi.
Alla fine, i due flussi vengono ricombinati per ottenere un profilo minerale calibrato e stabile. Il risultato è acqua potabile controllata da sensori in continuo.
Il caffè che ne deriva non sa di laguna, ma della sua trasformazione. Ogni tazzina diventa un gesto di circolarità, dimostrando che il confine tra risorse utilizzabili e rifiuti è solo una questione di tecnologia e volontà.

Il padiglione con raffrescamento geotermico passivo
Nelle Artiglierie dell’Arsenale, il padiglione del Bahrein affronta la questione del caldo con un approccio radicalmente diverso.
Heatwave, curato da Andrea Faraguna con gli ingegneri Alexander Puzrin e Mario Monotti, premiato con il Leone d’Oro come miglior partecipazione nazionale, rilegge le tecniche climatiche tradizionali del Golfo (torri del vento, cortili ombreggiati) e le innesta con soluzioni contemporanee come pozzi geotermici e camini solari.
Il risultato è un padiglione modulare capace di generare un microclima abitabile senza ricorrere all’aria condizionata. Il sistema ricrea in scala un raffrescamento geotermico passivo: l’aria esterna a 49°C viene convogliata in condotti sotterranei dove, sfruttando la temperatura stabile del suolo (27°C), si raffredda prima di essere reimmessa nello spazio. Un camino solare alto 40 metri assicura ventilazione continua.

La struttura modulare (pavimento e tetto a sbalzo sorretti da un’unica colonna di canali) è progettata per essere replicata in cortili scolastici, mercati e cantieri urbani.
Il tema è anche sociale perché i microclimi ombreggiati proteggono i lavoratori esposti a temperature estreme nei cantieri del Golfo, dove la climatizzazione diventa questione di sicurezza.
Materiali a basse emissioni (vetro espanso riciclato, scaglie di legno mineralizzate) e soluzioni ingegneristiche leggere dimostrano come l’architettura possa diventare infrastruttura climatica collettiva, trasformando l’emergenza in un progetto urbano resiliente.

All’Arsenale, dove non era possibile scavare un pozzo geotermico come nel prototipo originale, il padiglione è stato adattato attraverso un sistema di ventilazione meccanica che sfrutta le condizioni microclimatiche del sito.
L’aria viene aspirata dal canale, convogliata sotto la piattaforma e distribuita tramite ugelli radiali. Il risultato ricrea lo stesso microclima del prototipo originale.
I cuscini enormi del padiglione invitano a testare il sistema. Il comfort climatico senza condizionatori non è teoria ma realtà tangibile e funzionante.
Conclusioni: sospesi tra urgenza e comfort
La Biennale di Architettura 2025 non offre soluzioni comode. Mostra sistemi che funzionano: piante che filtrano inquinanti, lagune trasformate in acqua potabile e edifici che migliorano il microclima senza divorare energia.
La distanza tra questi prototipi e la norma edilizia è ancora enorme. Ogni installazione, però, dimostra che esiste un’alternativa misurabile, testata e replicabile.

Il problema non è tecnico. È culturale. Finché il comfort individuale varrà più del sistema collettivo, ogni innovazione resterà confinata in una biennale. L’architettura può cambiare, ma solo se cambiamo prima il modo in cui abitiamo. Venezia affonda. Le città si surriscaldano.
Le missioni spaziali ci insegnano che la sopravvivenza richiede cicli chiusi. La domanda non è più come costruiamo, ma quanto tempo abbiamo per smettere di costruire come abbiamo sempre fatto.
di Giambattista Brizzi
architetto e consulente in sostenibilità
presso Deerns Italia